Editoriale

Maurizio Rossini

Dipartimento di Medicina, Sezione di Reumatologia, Università di Verona

Cari Lettori, 

in questo numero troverete un aggiornamento relativo alla discussione sul possibile ruolo della vitamina D nelle malattie cardiovascolari e in alcuni disturbi mentali, grazie ai preziosi contributi di esperti Autori. 

Noterete come entrambi riconoscano la persistente discrepanza tra i risultati degli studi osservazionali e quelli di alcuni trial d’intervento o la carenza di questi ultimi. Come sapete gli studi osservazionali sono a rischio di fattori confondenti, come la “reverse causality”, in particolare per quelli sulla vitamina D, la cui carenza, considerati il meccanismo di sintesi endogena e il suo metabolismo, può essere la conseguenza e non la causa di uno stato di malattia. Questo rischio può oggi essere attenuato da nuove metodiche, come la randomizzazione mendeliana, che prevede l’uso di varianti alleliche di uno o più geni coinvolti nella codifica di un certo biomarker. In studi osservazionali che utilizzano questa metodica in una popolazione osservata e seguita nel tempo per valutare l’incidenza di determinati eventi, si confrontano i soggetti con una o più varianti geniche che determinano livelli sierici maggiori o minori nel nostro caso di 25(OH)D, simulando quindi un trial d’intervento controllato e randomizzato (RCT) con vitamina D, difficile da realizzare per motivi economici ma anche direi etici. Come vedrete in questo numero gli studi sinora condotti con questa metodica supportano il rapporto causa/effetto della correlazione tra carenza di vitamina D e mortalità o morbilità.

Recentemente sono stati pubblicati i risultati di un altro approccio che secondo me, come una sorta di “controprova”, può contribuire a supportare ulteriormente un beneficio clinico extra scheletrico della supplementazione con vitamina D.

Come riportato in precedenza e commentato anche in questa rivista, lo studio randomizzato VITAL, progettato principalmente per studiare gli effetti della supplementazione di vitamina D e omega-3 sul cancro incidente e sulle malattie cardiovascolari, ha dimostrato che 5 anni di supplementazione di vitamina D sono associati a una riduzione del 22% del rischio di malattie autoimmuni. Ora i ricercatori Karen H. Costenbader et al. hanno riportato che tra i 21.592 partecipanti allo studio VITAL che hanno accettato di essere seguiti per altri 2 anni dopo la sospensione della supplementazione con 2000 UI/giorno di colecalciferolo, la protezione contro le malattie autoimmuni non è più statisticamente significativa. Quindi l’interruzione della supplementazione con vitamina D si associa a una ripresa del rischio di malattie autoimmuni. I risultati dell’estensione dello studio VITAL confermano secondo me innanzitutto che la correlazione tra supplementazione di vitamina D e riduzione del rischio di incorrere in malattie autoimmuni non era casuale e suggeriscono che l’integrazione di vitamina D dovrebbe essere somministrata su base continuativa per la prevenzione a lungo termine di malattie autoimmuni, anche perché il rischio di tornare in condizioni di carenza non è oggi improbabile. Nel background della Nota 96 dell’Agenzia Italiana del Farmaco in relazione ai risultati dello studio VITAL viene riportato questo commento: “secondo i risultati ottenuti sarebbero stati necessari 2000 anni/persona di supplementazione con vitamina D per evitare un caso tra le 32 diagnosi di malattia autoimmune”. Io credo che se si esprimesse più correttamente il beneficio in termini di persone da supplementare/anno risulterebbe proponibile e cost/effective un intervento supplementare di popolazioni a rischio perché si ridurrebbe in maniera significativa l’incidenza di malattie autoimmuni di rilevante impatto in termini di disabilità, di mortalità e di costi sanitari e sociali.

Cosa ne pensate?

Buona lettura 

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