Editoriale

Maurizio Rossini

Dipartimento di Medicina, Sezione di Reumatologia, Università di Verona

Cari Colleghi

in questo numero troverete aggiornamenti sul possibile ruolo della vitamina D nella malattia renale cronica e in alcune malattie ginecologiche.

Noterete che in entrambi gli articoli gli esperti Autori partono dall’evidenziare quanto sia comune il deficit di vitamina D anche in queste condizioni patologiche.

Nel caso della malattia renale cronica si attribuisce questo deficit al ridotto apporto nutrizionale secondario alle tipiche restrizioni dietetiche, ai frequenti disturbi gastrointestinali associati e alla ridotta esposizione solare secondaria alla disabilità. 

Si fa inoltre notare che in questa condizione al deficit di vitamina D nativa si aggiunge la compromissione della sintesi di calcitriolo, cui conseguono alterazioni del metabolismo minerale e osseo (Chronic Kidney Disease-Mineral Bone Disorder, CKD-MBD) caratterizzato da uno stato di iperparatiroidismo secondario, inizialmente “adattattivo” ma successivamente “maladattativo” se non corretto con un’adeguata supplementazione vitaminica D. 

Interessante è l’osservazione che anche in pazienti con malattia renale cronica avanzata, tale da dover ricorrere alla dialisi, la somministrazione di colecalciferolo si associa a un incremento della sintesi di calcitriolo, a dimostrazione di una produzione anche extrarenale di quest’ultimo, pure a livello delle stesse paratiroidi. 

Anche se l’argomento è dibattuto, attualmente le linee guida suggeriscono di usare la supplementazione con la vitamina D nativa (colecalciferolo o ergocalciferolo) specie per prevenire l’insorgenza o la progressione dell’iperparatiroidismo, magari raggiungendo preferibilmente in questi pazienti livelli di 25(OH)D sierici ben al di sopra dei 30 ng/ml. 

I metaboliti attivi della vitamina D andrebbero riservati agli stadi più avanzati di malattia renale cronica, quando sono presenti elevati livelli sierici di paratormone nonostante adeguati livelli di 25(OH)D; non va dimenticato che l’uso di questi metaboliti si può associare a ipercalcemia, iperfosforemia, alterazione dei livelli di FGF-23 ed eccessiva riduzione dei livelli di PTH tale da aumentare il rischio di osso adinamico. 

Anche quando si dovessero usare i metaboliti attivi della vitamina D è saggio garantire comunque una supplementazione con la vitamina D nativa considerati i suoi effetti fisiologici extrarenali e i presunti benefici extrascheletrici.

Che ne dite ad esempio dei recettori, dei geni modulati dalla vitamina D e degli enzimi attivanti la vitamina D in diversi tessuti, tra cui quelli del tratto riproduttivo? 

Avete notato quanto letteratura nuova ci sia sempre nel nostro consueto aggiornamento bibliografico in ambito ostetrico-ginecologico ? 

Gli Autori dell’altro articolo di questo numero ci fanno notare che polimorfismi genetici del recettore specifico per la vitamina D (VDR) sono stati associati a livelli differenti di ormoni sessuali e che l’aggiunta di vitamina D a cellule della granulosa è in grado di aumentarne la sintesi. Ciò potrebbe giustificare le correlazioni osservate tra deficit di vitamina D e disturbi del ciclo mestruale o la sindrome dell’ovaio policistico, caratterizzata da oligo-anovulazione, segni clinici e/o biochimici di iperandrogenismo e morfologia policistica dell’ovaio. 

Potrebbe anche giustificare gli effetti positivi osservati con la supplementazione, specie se giornaliera, di pazienti affetti da policistosi ovarica, in termini di infertilità e di correzione di alcune tipiche alterazioni metaboliche associate, tra cui iperinsulinismo, dislipidemia e stato infiammatorio cronico.

Buoni motivi per non trascurare la valutazione dello stato vitaminico D e l’eventuale opportunità di supplementazione anche in questi pazienti.

Cosa ne pensate? 

Buona lettura 

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