Editoriale

Maurizio Rossini

Dipartimento di Medicina, Sezione di Reumatologia, Università di Verona

Cari Colleghi, 

in questo numero, con il consueto contributo di esperti Autori, ci occupiamo di alcuni aspetti relativi al possibile ruolo della vitamina D in gastroenterologia.

Complessa e ancora in gran parte sconosciuta, quindi affascinante, è la possibile interazione tra vitamina D e microbiota intestinale, soprattutto in caso di alterazioni qualitative o quantitative di quest’ultimo. 

Ricordando la fisiologia dell’assorbimento intestinale di vitamina D si comprende come qualunque alterazione anatomica o funzionale a carico del tubo digerente possa impattare sul microbiota e sullo status vitaminico D e d’altra parte, considerato il riconosciuto ruolo immunomodulante della vitamina D, come non si possa escludere che il ruolo riportato del microbiota nella patogenesi di molte malattie infiammatorie croniche intestinali (MICI) si realizzi, almeno in parte, attraverso un’alterata disponibilità locale della vitamina D. 

Come vedremo molti studi hanno valutato gli effetti della vitamina D sul microbiota intestinale, in particolare, ma non solo, nel campo delle MICI, dove è stata descritta un’associazione tra deficit di vitamina D e attività di malattia, rischio di recidiva e fallimento delle terapie. 

Ma sono prevedibili e descritti anche interessanti effetti del microbiota sulla vitamina D. Basti pensare alle possibili conseguenze sull’assorbimento della vitamina D delle modificazioni qualitative e/o quantitative del microbiota intestinale, secondarie ad esempio a ipochilia o ad alterazioni della motilità intestinale o alla somministrazione di probiotici.

La disbiosi intestinale appare coinvolta anche nella patogenesi della frequente steatosi non alcoolica (non-alcoholic fatty liver disease, NAFLD) e negli ultimi anni molti studi epidemiologici hanno documentato che i pazienti affetti da NAFLD hanno livelli circolanti di 25(OH)D significativamente ridotti rispetto alla popolazione di controllo. 

Bassi livelli di vitamina D3 si associano anche a una maggiore severità istologica della NAFLD. Benché i meccanismi eziopatogenetici che possono spiegare tale associazione non siano ancora chiariti, è stato ipotizzato che la vitamina D3 possa espletare importanti effetti epatoprotettivi. In vitro è stato visto in particolare che la vitamina D è in grado di modulare positivamente il signaling insulinico (migliorando la resistenza insulinica anche a livello epatico) e di ridurre la proliferazione dei fibroblasti e la produzione di collageno. Fino a oggi non sono tuttavia disponibili in letteratura né ampi studi prospettici di coorte né ampi trial clinici randomizzati che abbiano valutato la possibile associazione fra livelli circolanti di vitamina D3 e il rischio di sviluppare o far progredire NAFLD, studi necessari per poter confermare la plausibilità biologica e il possibile ruolo causale della vitamina D3 nello sviluppo e nella progressione del NAFLD. 

Tuttavia vedrete che recentemente sono stati pubblicati i risultati di studi prospettici di coorte e di studi di randomizzazione mendeliana che suggeriscono che effettivamente il mantenimento di sufficienti livelli di 25(OH)D possa rappresentare un approccio efficace alla prevenzione primaria e secondaria della NAFLD. 

Vi segnalo inoltre che dovremmo cominciare a considerare la NAFLD tra le patologie che determinano osteoporosi secondaria. è quanto emerge da una metanalisi recentemente pubblicata su Osteoporosis International 1 che ha permesso di documentare una associazione significativa, soprattutto nei soggetti di sesso maschile, tra NAFLD e prevalenza e rischio di osteoporosi e fratture. Un altro motivo per pensare alla vitamina D in questi pazienti.

Cosa ne pensate ?

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