Editoriale

Maurizio Rossini

Dipartimento di Medicina, Sezione di Reumatologia, Università di Verona

In questo numero troverete un aggiornamento sul rapporto tra vitamina D e due grandi tematiche: malattie autoimmuni e dolore.

Si dice che la vitamina D abbia effetti immunomodulanti. Ma che significa? 

Cercando di semplificare al massimo la risposta, credo che vadano riconosciute tre principali funzioni della vitamina D in ambito immunologico: la funzione battericida, quella di attenuazione della risposta infiammatoria e quella favorente la tolleranza immunitaria 1. 

La prima, anche in ordine cronologico, è quella battericida, come scoperto 170 anni fa con l’uso dell’olio di fegato di merluzzo per la cura della tubercolosi, anche se la comunità scientifica solo 40 anni fa ne ha descritto il meccanismo chiave identificando recettori per la vitamina D nei leucociti e dimostrando la presenza di enzimi attivanti la vitamina D anche nella linea monocito-macrofagica. 

La seconda funzione è quella di poter attenuare la risposta infiammatoria, grazie all’inibizione di citochine pro-infiammatorie e alla stimolazione di quelle ad azione antinfiammatoria a livello dei linfociti T, riducendo in questo modo le possibili manifestazioni cliniche di malattie infiammatorie croniche o i possibili danni da “fuoco amico”. 

La terza importante funzione in ambito immunologico della vitamina D è quella di favorire la tolleranza immunitaria, in quanto è in grado di rallentare la maturazione delle cellule dendritiche e la presentazione dell’antigene, oltre a inibire la sopravvivenza, proliferazione, differenziazione e produzione anticorpale dei linfociti B. Da ciò deriva anche il razionale fisiopatologico per comprendere il rischio di incorrere in malattie autoimmuni in condizioni di carenza di vitamina D. A questo proposito com’è noto numerosi studi epidemiologici hanno descritto un’elevata prevalenza di ipovitaminosi D in diverse malattie autoimmuni, tra cui soprattutto la sclerosi multipla, il diabete di tipo 1, la psoriasi, il morbo di Crohn e molte malattie reumatologiche (in particolare l’artrite reumatoide, l’artrite psoriasica, la spondilite anchilosante, la sclerosi sistemica e il lupus), ma queste osservazioni non sono in grado di documentare una sicura correlazione di causa-effetto. Per dimostrare ciò occorrono studi longitudinali di lungo termine, preferibilmente prospettici, che esplorino la correlazione tra stato vitaminico D o supplementazione con vitamina D e incidenza di malattie autoimmuni. 

Come leggerete in questo numero, recentemente è stato effettivamente osservato che la supplementazione quotidiana con 2000 UI di vitamina D si è associata a una riduzione significativa del rischio di incorrere in malattie autoimmuni 2. Questo importante risultato conferma il significato clinico dei presupposti fisiopatologici, il rapporto di causalità e supporta la convinzione che la prevenzione della carenza di vitamina D effettivamente possa anche ridurre il rischio di malattie autoimmuni.

L’altro contributo in questo numero è rappresentato da una review sul possibile ruolo della vitamina D nei confronti del dolore, principale espressione clinica di molte patologie, in particolare reumatologiche e oncologiche. Anche in questo caso l’Autore si è innanzitutto preoccupato di riassumere i principali presupposti fisiopatologici che potrebbero essere sottesi, identificandoli in particolare nella presenza di recettori specifici per la vitamina D nei neuroni delle vie centrali e periferiche coinvolte nel rilevamento e nell’elaborazione del dolore, nella capacità della vitamina D di modulare l’espressione di diversi geni correlati al dolore, nella presenza anche a livello neuronale di attività enzimatiche deputate all’attivazione della vitamina D, nella capacità della vitamina D di interagire o di interferire con fattori neurotrofici o citochine algogene o altri neuro-immuno modulatori. 

Nonostante vi sia il razionale per attendersi un effetto positivo della vitamina D nel controllo del dolore, come vedrete i risultati degli studi sino a ora condotti sono inconsistenti e discordanti. Come riconosciuto dall’Autore vi sono tuttavia molteplici ragioni per giustificare tali discrepanze: l’ancora incerta definizione e determinazione della carenza di vitamina D e la sua variabilità, i molteplici polimorfismi genetici che possono condizionare un deficit “funzionale” di vitamina D e la diversa farmacocinetica o farmacodinamica individuale, l’eterogeneità e variabilità nella percezione personale del dolore, che ne compromettono un’accurata valutazione e rendono urgente la ricerca di marcatori biologici del dolore. Da qui la necessità anche in questo campo di ulteriori studi clinici e di ricerca traslazionale.

Cosa ne pensate?

Buona Lettura

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