EDITORIALE

Maurizio Rossini

Dipartimento di Medicina, Sezione di Reumatologia, Università di Verona

Carissimi, 

ci mancava vero un contributo in ambito gastroenterologico che coinvolgesse la vitamina D e quindi eccolo in questo numero, in particolare sul tema della malattia celiaca, grazie alla disponibilità di esperti colleghi Gastroenterologi. Come vedrete il legame tra malattia celiaca e vitamina D è a doppio senso in quanto, se da una parte le lesioni intestinali possono portare a un malassorbimento di vitamina D con le note conseguenze negative sull’osso, dall’altra la carenza di vitamina D si associa a un’abnorme risposta infiammatoria che, almeno potenzialmente, potrebbe favorire l’esordio e il mantenimento dell’enteropatia stessa. In effetti gli Autori riportano evidenze dalla letteratura che inducono a ritenere che la vitamina D possa giocare un ruolo nella patogenesi della malattia celiaca, sia attraverso un effetto protettivo diretto sulla barriera intestinale, sia modulando la risposta immunitaria a favore dei meccanismi di tolleranza. 

Di nuovo in particolare anche in questo campo ritroviamo il razionale per un effetto protettivo della vitamina D nei confronti della “cascata citochinica”, risposta infiammatoria che se eccessiva può fare gravi danni (da cosiddetto “fuoco amico”), come ipotizzato anche in corso di COVID-19. A questo proposito abbiamo recentemente ipotizzato che anche il pregresso uso di aminobisfosfonati, riducendo nel lungo termine il livello di linfociti T γδ circolanti e quindi la cascata citochina responsabile della reazione di fase acuta, possa giustificare la riduzione osservata di polmoniti e di mortalità da polmoniti in pazienti trattati con questi farmaci. 

Anche considerata la seconda ondata in corso della pandemia da SARS-Cov-2 non potevamo esimerci dal fare il punto per i nostri lettori sulle conoscenze relative al possibile ruolo dello stato vitaminico D nei confronti della malattia COVID-19, essendo noti e riconosciuti i suoi molteplici effetti immunomodulatori e ricchissima la recente letteratura in merito, che ci ha costretto anche in questo numero a una selezione bibliografica dedicata. Mi pare che si possano condividere le fondate e prudenti conclusioni degli Autori ai quali abbiamo affidato questo compito, secondo i quali i dati a disposizione rendono credibile un legame tra carenza di vitamina D e suscettibilità e severità della infezione da SARS-Cov-2.

Nella recente esperienza da noi condotta in occasione della precedente ondata pandemica abbiamo studiato la prevalenza della carenza di 25(OH)D tra pazienti ricoverati per COVID-19, cercando in particolare le associazioni tra lo stato vitaminico D e la gravità della malattia. Tra i 61 pazienti inclusi nello studio, il 72,1% era carente di 25(OH)D (<20 ng/mL) e il 57,4% aveva 25(OH)D <15 ng/mL. La carenza di vitamina D era associata a un rischio aumentato di avere PO2 arteriosa < 60 mmHg, a un aumento di 3 volte del rischio di avere PCR alterata e a un incremento del rischio di presentare dispnea all’esordio della malattia. Tuttavia, come sapete, trattandosi di uno studio osservazionale retrospettivo non possiamo con questi risultati attribuire alla carenza di vitamina D un ruolo causale, anche in considerazione dei noti effetti della flogosi, specie se intensa, sui livelli sierici di 25(OH)D. Solo i risultati di trial clinici che prevedano la supplementazione con vitamina D potranno darci risposte certe a questo riguardo, ma credo che comunque nel frattempo sia saggio non trovarsi a rischio di carenza di vitamina D.

Cosa ne pensate?

Statemi bene

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